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Presentazione  del  Catasto Onciario on-line

Proviamo a fare un piccolo gioco di simulazione immaginando di fare un  tuffo nel passato, non in un passato mitico come quello raccontato al cinema e neanche nel passato gelido dei manuali di storia, ma in un passato molto più terreno e famigliare, quello di tutti i giorni, quello popolato dalle cosiddette persone comuni. Siamo a Castiglione, quasi alla fine del Settecento, ed esattamente nel 1797. Camminiamo per la strada e facciamo la conoscenza con alcune famiglie che vi abitano. Per prima, incontriamo quella di

“Don Angelo Percacciante dottor fisico d’anni 45

Don Giuseppe figlio d’anni 10

Donna Candida figlia d’anni 16

Donna Teresia sorella d’anni 48

Donna Orsola sorella d’anni 40

Vincenzo D’Andrea molettiero d’anni 30

Orsola serva d’anni 18

Abita in casa propria luogo detto La Piazza giusta le vie pubbliche

Possiede una posessione detta Tezzara, alberata di olive, viti, fichi e querce, confine Rosario Marsico e Tomaso Buglio, stimata di rendita ducati sette son’once  23 e 1/3

Altra posessione detta Fontana, e Zaccaria, con fichi, viti, olive e querce, confine il venerabile seminario di Cosenza, e la massa delle messe di questa parrocchiale chiesa, stimata di rendita ducati quattro e grana quaranta, son’once 14 e 2/3

Altra posessione detta Sambiasi di Bello, di Cestiglia, di Russo e di Lanza, alberata di celsi, fichi, viti, olivi e querce, confine di Pietro canonico Micieli di Cosenza, don Filippo Grisolia di Celico, e via pubblica, stimata di rendita ducati ventiquattro, son’once 80

Altra posessionella detta Costa di Pignataro, e Fornelle, con olive e querce, confine Fedele Spagnuolo e don Francesco Carratelli della città dell’Amantea, stimata di rendita carlini quindeci, son’once 5

Un forno cocente di rendita ducati tre son’once 10

Un trappeto per macinar olive, di rendita ducati quattro e grana cinquanta, son’once 15

Una casa di affitto sopra il trappeto, affittata a Rafaele Guccione, per ducati tre, dedotto il quarto, son’once 7 e 2

Due altre case matte, che servono per proprio uso, e comodo di servi

Esigge da Pietro Guccione annui carlini diciotto, annui son’once 6

Tiene un mulo per proprio uso e comodo

Sono in tutto once 161 e 2” di tassa.

Ma evidentemente don Percacciante è piuttosto abile, perché riesce a detrarre dalle tasse molte voci. Vediamole insieme.

Pesi da dedursi

(come le spese mediche odierne o i soldi dati in beneficienza)

“Paga alla massa delle messe di questa Parochiale chiesa annui ducati sette e grana cinquantacinque son’once 25

Alla reparazione di questa sudetta Parochiale carlini ventisei, son’once 8 e 2/3

Alla congregazione del SS. Salvadore di Cosenza annui ducati otto, son’once 26 e 2/3

Paga al monte de maritaggi di questo luogo, un fondo per fornire di dote le ragazze povere, annui carlini 30, e grana sei, son’once 10

Paga alla chiesa della SS. Annunciata di questo luogo carlini undeci e grana cinque annui, son’once 3 e 2/3

Paga alli P.P. minimi di San Francesco di Cosenza annui carlini quindeci, son’once 5

Al beneficio curato di don Giosuè Parroco Pastore di questo casale annui carlini sei, son’once 2

Alla cassa de suffragi di questo suddetto luogo annui grana vencinque, son’once 0 e 2/3

Alla massa degl’anniversari di questo medesimo luogo annui carlini ventidue son’once 7 e 1/3

son’once 89

restano 72 e 2”

Poi, lì accanto, troviamo una famiglia più modesta, quella di

“Antonio Acri trattore di seta d’anni 46

Rosa Muto moglie d’anni 44

Domenico figlio d’anni 18

Rosa Russo moglie d’anni 17

Teresa figlia di detto Domenico nelle fascie

Pasquale Acri nipote d’anni 20

Industria once 14

Industria di Domenico once 12

Industria di Pasquale once 12

Abita in casa di don Luigi Ferrari, della quale ne paga annui carlini ventiquattro

Possiede un pezzetto di terreno detto Cuiollarino Soprano, con pochi fichi, e viti, confine Rafaele Magnelli, e Giacomo Pastore, stimata di rendita carlini sei, son’once 2

Pesi da dedursi

Paga al monte de maritaggi di questo luogo annui carlini sei, son’once 2

restan’once 38”.

Facciamo ancora due passi, e ci imbattiamo in una terza famiglia, ancora più modesta della seconda:

“Francesco Conte serviente d’anni 38

Popa Cristofalo moglie d’anni 30

Orsola figlia d’anni 4

Giuseppe fratello d’anni 25

Anna Acri moglie di detto Giuseppe d’anni 23

Rosa figlia nelle fascie

Industria di Francesco once 12

Industria di Giuseppe once 6

Abita in casa d’affitto proprietà della massa delle messe di questa Parochiale chiesa, per la quale ne paga alla medesima annui ducati quattro

Possiede una posessionella detta Vallicella con poche olive, confine Teresia Cristofalo, ed Ippolito Fortino, stimata di rendita grana sessanta, son’once 2

Altro pezzetto di posessione detta la Ficuzza, con pochi celsi, confine il magnifico Carlo Leone, e Domenico Preite, stimata di rendita grana trenta, son’once 1

son’in tutto once 21

Pesi da dedursi

Paga al cantore don Vincenzo Canonico di Cosenza annui carlini tre, son’once 1

Restano once 20”.

Voi direte: “E allora, adesso che abbiamo fatto la loro conoscenza, che cosa ce ne facciamo? Perché queste persone dovrebbero interessarci? Che cosa hanno fatto di così importante che vale la pena ricordare?”. Forse nulla, se non che quelle persone hanno vissuto, fatto del bene e del male, sofferto, gioito come tutti e, soprattutto, come tutti hanno fatto la storia, e non solo la loro storia. C’è una bella poesia di Bertolt Brecht, dal titolo Tebe dalle sette porte, che recita così:

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case,
di Lima lucente d’ ro, abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide,
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India
da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
oltre a lui l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese ?

Quante vicende,
tante domande.

Ecco, appunto, il medico Percacciante, Acri il setaiolo, il servo Conte e i loro famigliari: anche loro hanno fatto la storia, hanno contribuito a costruire la loro Tebe. Una storia e tante storie che sarebbe bello poter conoscere, non per sostituirle a quelle dei re, delle marchese, delle cortigiane e dei condottieri,  raccontate mille volte, ma per accostarle, perché senza di loro quei marchesi, quegli uomini illustri non avrebbero potuto fare nulla, non sarebbero stati nulla. Le storie dei Percacciante, degli Acri e dei Conte però ce le dobbiamo ricostruire noi, e la sfida è tanto difficile quanto affascinante, perché ci troviamo di fronte all’assoluto ignoto. Da dove partire? Da quale bandolo?

Gli archivisti dell’Archivio di Stato di Cosenza hanno avuto una idea formidabile: quella di mettere on-line i catasti onciari dei comuni della provincia; una idea a un tempo straordinariamente stimolante, ma anche minacciosamente pericolosa, soprattutto per loro. Torneremo alla fine a interrogarci su questo rischio. Ora, cerchiamo invece di vedere perché la messa in rete dei catasti onciari, cioè del documento da cui, pescando a caso, ho tratto le informazioni su quelle famiglie ci offre una opportunità a dir poco preziosa. Ci dà quel bandolo che cercavamo.

Un catasto dunque: uno penserà, “ma che cosa c’è di più noioso di un elenco delle proprietà immobiliari?”. Credo quasi nulla, solo che il catasto onciario non si riduceva al banale e arido inventario di case e beni, come sono redatti i catasti odierni, ma fotografava l’intera anagrafe della popolazione del Mezzogiorno censendo nello stesso tempo anche tutte le fonti di reddito dei singoli nuclei famigliari, dai beni immobili a quelli mobili, e perfino gli animali posseduti. È come se noi, oggi, potessimo unificare l’anagrafe dei comuni, i censimenti generali della popolazione e il database del ministero delle Finanze che contiene i dati sulla nostra situazione fiscale e professionale: un concentrato di dati formidabile. Bene il catasto onciario era tutto questo: ogni comunità del regno veniva passata al pettine, ogni nucleo famigliare radiografato. Certo, qualcuno, qualcosa sfuggiva: i nullatenenti, i beni feudali, metà del patrimonio ecclesiastico che non era tassato. Eppure, nonostante questi limiti, noi abbiamo nelle mani una documentazione unica e, appunto, preziosa: preziosa tanto per i funzionari del Regno, che percepivano le imposte proprio a partire da quelle informazione, che costituivano la loro base fiscale, quanto per noi, che oggi guardiamo a persone che vi sono elencate con l’occhio lontanissimo dei posteri.

Ma che farcene, appunto, di quei dati? Ritorniamo un attimo alle tre famiglie che abbiamo scorso in modo appena distratto. Cominciamo dalla prima, quella del medico. Che cosa ci suggeriscono quegli scarni dati? Scopriamo anzitutto che era rimasto vedovo, che aveva avuto la prima figlia a 30 anni, un secondo a 34, e che per allevarli aveva dovuto far venire a vivere in casa due sorelle: sospettiamo dunque che la moglie fosse morta di parto, una eventualità abbastanza frequente al tempo; e comunque sappiamo che era morta abbastanza giovane. Finanziariamente, il medico sembrava passarsela piuttosto bene, anzitutto perché manteneva due persone di servizio, un mulattiere e una domestica, e poi perché disponeva di proprietà non indifferenti: una casa di abitazione, e poi molti lotti di terra con fichi, olivi, querce, gelsi, viti. Che cosa ne deduciamo? Un sacco di cose. Ne deduciamo che si faceva il vino da sé, che teneva maiali – a quello servono le querce, a fornire appunto ghiande ai maiali – ma faceva allevare anche bachi da seta la cui produzione, una delle principali risorse della Calabria del tempo, molto probabilmente appaltava a qualche trattore. E poi si produceva anche l’olio, per la cui lavorazione disponeva di un trappeto dove macinarle. Naturalmente, non potevano mancare i fichi, una ricchezza nelle diete alimentari del Sud di allora. Ma non basta: il nostro medico affittava case e aveva un forno che evidentemente locava ad altri, perché, ci dice l’onciario, gli garantiva una rendita. Ancora, possedeva un mulo per gli spostamenti personali, al tempo una vera fortuna, e poi aveva case per i servi e denaro in abbondanza, tanto che ne prestava, non sappiamo se a usura, ma immaginiamo non gratis. Insomma, don Angelo disponeva di un bel gruzzolo che a quanto pare riusciva anche a difendere bene dal fisco, perché aveva dimostrato di aver diritto a una vera e propria massa di detrazioni fiscali, come le chiameremmo oggi. L’onciario infatti elenca puntigliosamente i suoi cospicui investimenti devozionali in monti dei maritaggi, confraternite, opere pie e chiese, un particolare che ci segnala tra l’altro l’entità del suo impegno nei confronti della chiesa: tutte spese che poteva portare in detrazione dell’imponibile. Antonio Acri invece – ve lo ricordate? era il trattore di seta – se la passa decisamente peggio. Vive con la moglie e il figlio ancora diciottenne, ma già maritato, la nuora e la nipotina, ancora in fasce. Sta in una casa ad affitto, piuttosto piccola, per la quale paga un canone annuo di due ducati e quattro carlini. Una pigione non indifferente: era l’equivalente del prezzo del grano per fare il pane consumato da un adulto in due mesi. Così veniamo anche a sapere qual era il peso dell’affitto della casa sul bilancio famigliare del tempo. Antonio possedeva poi un minuscolo appezzamento di terra con poche viti e qualche sparuto fico: non c’era di che scialare. Una vita grama. La famiglia viveva dell’ “industria” di padre e figlio, come si definivano i lavori non prettamente agricoli. Ma le loro braccia non bastavano. Avevano fatto venire a vivere in casa con loro il nipote, per integrare il magro bilancio con l’offerta della sua forza lavoro: un paio di braccia in più. Altro particolare importante: in casa coabitano due unità domestiche, quella del padre e quella del figlio, a sottolineare come a certi livelli di reddito, ovviamente i medio-bassi, ovvero in corrispondenza con certe professioni, la sopravvivenza di un nucleo autonomo fosse difficile, se non impossibile. I figli, soprattutto i figli dei braccianti ben difficilmente potevano abbandonare la casa paterna e costituire una dimora per conto proprio, banalmente perché non ce la facevano a mantenersi – esattamente come succede oggi. Come se non bastasse, c’era una ciliegina sulla torta dell’iniquità. Tolta una piccola detrazione, la famiglia pagava una imposta di 38 once: badate bene, più della metà dell’imponibile del medico, che ammontava a 72 once. Solo che questi,  come abbiamo visto, risultava molto più ricco di lui – come dire che la sperequazione nella ripartizione dei carichi fiscali in Italia è di lunga data. E Francesco Conte, il servo? Se possibile, stava ancora peggio di Antonio. Anch’egli abitava in una casa presa in affitto dalla parrocchia; anch’egli era proprietario di due minuscole pezze di terra con pochi gelsi e anch’egli era stato costretto a coabitare perché diversamente non ce la l’avrebbe fatta. Solo che in questo caso non era il figlio con la nuora il coinquilino, ma il fratello, con tanto di cognata e nipote in fasce: certamente una coesistenza coatta, dettata dalla povertà, che suggerisce la possibile esistenza di rapporti interni al nucleo tendenzialmente tesi, mai rilassati, potenzialmente conflittuali, e in ogni caso privi di privatezza. Ancora: uno dei due fazzoletti di terra che Francesco possiede confina con la proprietà di una certa Teresia Cristofalo: lo stesso cognome della moglie di Francesco. Che cosa significa? significa che molto probabilmente quel fazzoletto gli era stato portato in dote appunto dalla moglie Popa: lo stesso appezzamento dunque era stato diviso in due e dato in dote alle due sorelle Cristofalo. Senza quell’aiuto, la terra di Popa, la famiglia a stento sarebbe riuscita a sbarcare il lunario. Indipendentemente dal lavoro della donna, divisa fra la casa, l’allevamento del figlio, la cooperazione col marito nella trattura della seta, quella dote costituiva una preziosa risorsa integrativa per il bilancio famigliare – e noi sappiamo che più ci si avvicina alla parità di redditi fra marito e moglie, meno sperequati risultano i ruoli all’interno dell’aggregato domestico, sia sotto il piano affettivo, sia sotto quello del potere decisionale.

Naturalmente, a questo punto vi chiederete: “Sì, sì, arzigogolando un po’, abbiamo ricavato dal catasto onciario un sacco di informazioni su tre famiglie; ma dopotutto si tratta di informazioni spicciole: è proprio questa la storia?”. No, naturalmente questa non è la storia. Meglio, diciamo che non è ancora storia. Ma siamo nell’anticamera. Ora proviamo a fare un passo avanti e proviamo a entrare nelle stanze della storia vera. Per farlo, occorre abbandonare i personaggi con i quali ci siamo intrattenuti finora e guardare l’intera foresta, anziché soffermarci su pochi alberi. In altri termini, occorre continuare a raccogliere le stesse informazioni che abbiamo tratto fino a questo momento, e magari altre che ci verranno davanti cammin facendo, ma relativamente a tutta la comunità. Ecco allora che a poco a poco abbandoneremo il piano della curiosità per approdare al vero piano della storia, alla rilevanza dei suoi problemi. Perché? perché, mettendo insieme i dati ed elaborandoli, saremo in grado di capire come era fatta davvero Castiglione a fine Settecento. Castiglione come qualsiasi altro luogo della Calabria o del Mezzogiorno. Dunque, potremo sapere quante famiglie c’erano, come erano composte, quanti erano i nuclei singoli o quelli che vivevano in coabitazione come risposta strategica alle difficoltà e alla povertà, quanti figli avevano in media, a che età di solito le donne e gli uomini si sposavano, se era più facile rimanere vedovi o vedove, in quali nuclei vivevano i vecchi, soli, come oggi, o in compagnia dei figli, e, se sì, di quali? i maschi, le femmine, il maggiore o il minore o qualcun altro? potremo così avvicinarci a uno dei problemi più affascinanti e segreti del passato: la natura dei rapporti affettivi e di solidarietà all’interno della famiglia, rapporti che si sbaglierebbe della grossa a immaginare eterni, sempre uguali a se stessi. E poi, ancora, potremmo chiederci qual era l’arco di mestieri professati al tempo. Quali i più comuni e i più ricercati? e, di conseguenza, come si configurava la gerarchia sociale del casale, dai più ricchi ai più poveri? e poi, ancora, nella composizione delle famiglie c’erano differenze che dipendevano dalla condizione sociale delle persone? che so io: i braccianti, che rappresentavano il ceto più diffuso, mettevano al mondo mediamente più figli o erano i ceti benestanti quelli più prolifici? e se scoprissimo sensibili differenze nel tasso di fecondità, a quel punto dovremmo interrogarci sul perché e su quali strumenti fossero adottati all’epoca da chi aveva famiglie più ridotte per controllare la fertilità. Chi tendeva a sposarsi prima: i poveri o i privilegiati? E ancora: come era distribuita la proprietà immobiliare? chi aveva e chi non aveva? In quanti casi la terra garantiva la sopravvivenza del nucleo e in quanti altri offriva solo un integrazione al bilancio domestico? e come erano distribuite le colture? quanta porzione di territorio era destinata a grano? quanti erano gli uliveti, i gelsi, i castagni? e poi, ancora, chi prestava i soldi? chi investiva nel credito e a chi lo erogava? e qual era il peso delle istituzioni, a partire da quelle ecclesiastiche, nell’economia del luogo? e i ricchi vivevano accanto ai ricchi – come capita spesso oggi – o dimoravano fra gli altri, magari tra quelli che dipendevano più o meno direttamente da loro?

Naturalmente, potrei andare avanti per ore a pormi interrogativi. A quelle appena formulate si potrebbero aggiungere molte altre domande, ma credo sia più utile adesso soffermarci per riflettere su un punto fondamentale. Anzi, sul punto fondamentale: e cioè che, ponendo queste questioni e affrontando questi problemi a partire dalla lettura di qualche foglio del catasto onciario, siamo davvero approdati al piano che prima definivo della vera storia, ovvero dello studio scientifico del passato. In altri termini possiamo finalmente concentrare la nostra attenzione su chi, come diceva Brecht, costruì Tebe dalle sette porte: i braccianti, i setaioli, i servi, gli uomini di chiesa, così come gli artigiani, le donne, i notabili; la massa sconosciuta che ha contribuito, ognuno per la sua parte, a far la storia non meno di quelli blasonati che vivevano alle loro spalle. Ma ci basterà questa fonte, da sola, per ricostruire quel passato tanto importante quanto anonimo? per raccontare insomma la vera storia della gente anziché quella dei soliti noti? Ovviamente no, perché per lo storico che si rispetti, o anche solo per il curioso del passato, nessuna fonte è autosufficiente. Oggi come ieri. L’immagine del passato può emergere solo attraverso un gioco a incastro di più fonti, perché ognuna, presa a sé, ci mostra solo una sfaccettatura della realtà: ce ne restituisce sempre una immagine parziale. Ma allora a che cosa ci serve il catasto onciario? Il catasto è una spia straordinaria, un termometro, o meglio ancora una specie di TAC che scompone il corpo di una società del passato, lo analizza e ci consegna il referto, facendocene vedere le specificità e i problemi, segnalandoci le anomalie e le regolarità di funzionamento. A noi poi, come al medico di oggi, formulare una diagnosi: ovvero spiegare perché le cose stavano così. Lo storico infatti non può accontentarsi di una fotografia, perché una foto immobilizza il tempo: deve cogliere i processi e il mutamento, capire la natura e la logica delle scelte individuali, anche le più banali, che hanno comunque prodotto la storia che ci ha preceduti. Per fare questo occorrerà compiere un passo ulteriore: tuffarsi in altre carte nella speranza, non sempre ben riposta, che quelle ci consentano di chiarire i problemi che il catasto ha sollevato, ma che da solo non poteva risolvere. Vorrei farvi solo un piccolissimo esempio a riguardo. Torniamo un attimo a Castiglione. Io vi ho parlato del catasto del 1797, ma di Castiglione, come di tanti altri paesi, ne esiste un altro, del 1743. Ora supponiamo di aver raccolto tutte le informazioni dai due documenti e di avere scoperto profonde differenze nell’arco di poco più di cinquant’anni: che so (provo a fare una simulazione inventando), prima le famiglie di braccianti erano il 54% e poi sono diventate il 36%; nel ’43 le coppie avevano in media quattro figli e nel ’97 ne hanno due e mezzo; prima ci si sposava molto giovani, gli uomini mediamente a 21 anni e le donne a 18, e poi l’età al matrimonio si alza sensibilmente: insomma una serie di indizi che denunciano la presenza di notevoli mutamenti intervenuti in seno alla società in quei pochi decenni. I catasti però non ci possono suggerire nulla in merito alle cause: toccherà a noi il compito di trovare nella storia di quelle famiglie, e nella storia complessiva di quella società e della sua economia, le ragioni di un cambiamento così evidente. Insomma bisognerà fare quella piccola operazione mentale che noi spontaneamente facciamo quando ragioniamo sul presente. Quando leggiamo ad esempio che in Italia, nell’anno 2000, gli uomini si sposavano in media a 30,41 anni e le donne a 27,75, e che, nel 2009, ultima rilevazione ISTAT, quelle cifre sono salite rispettivamente a 33,13 e 30,29, in buona sostanza ci si sposava quasi tre anni più tardi, bene a quel punto il nostro pensiero corre subito alla crisi, alla estrema difficoltà dei giovani di trovare un lavoro, al carovita e alla paura e all’incertezza nel futuro. Le stesse ragioni, o ragioni simili a queste, magari di segno contrario, ad esempio un miglioramento netto delle condizioni di vita, valevano per il passato come valgono per la realtà odierna: solo che tocca a noi scoprirle: formulando ipotesi e tornando in archivio.

Non credo che a questo punto occorra spendere altre parole per giustificare l’importanza dell’iniziativa presa dall’Archivio di Stato di Cosenza: la messa on-line, a disposizione di tutti, e in modo gratuito, della riproduzione integrale dei catasti onciari dei paesi della provincia. Un progetto pilota che, a quanto ne sappia, rimane a tutt’oggi l’unico, ma che si spera altri archivi di Stato del Sud possano avviare a loro volta. Si tratta insomma di una iniziativa preziosa che deve essere pubblicizzata ben al di là dei confini regionali, perché testimonia quanto la buona volontà e la competenza del personale degli archivi suppliscano alle carenze strutturali del Ministero dei Beni Culturali e forniscano una risposta adeguata al disprezzo con cui i recenti governi hanno trattato il mondo della cultura, uno dei maggiori tesori del nostro Paese.

Una iniziativa magnifica dunque, e tuttavia vorrei concludere esternando quel dubbio che all’inizio definivo “un minaccioso pericolo” per il futuro dell’archivistica, degli archivi e della memoria del nostro popolo: un dubbio che comunque non coinvolge per nulla questo splendido lavoro sul catasto onciario. Da alcuni anni, negli USA, infuriano le polemiche intorno ai progetti di digitalizzazione dell’intero patrimonio librario mondiale conservato nelle biblioteche. Ci sono molte buone ragioni dall’una e dall’altra parte: in ogni caso, alcuni dei pericoli di chi paventa il trasferimento dei libri su formato elettronico sono fondati e da prendere in seria considerazione. Qui, certo, siamo in un altro ambito, ma comunque la prospettiva della digitalizzazione del materiale archivistico – qualcuno caldeggerebbe addirittura di tutto il materiale archivistico – solleva una questione rilevante che è del tutto indipendente dalla nostalgia di chi preferisce tenere direttamente il mano il foglio ingiallito e non avere lo schermo del monitor davanti. Qui in ballo ci sono da un lato il ruolo degli archivisti e dall’altro la possibilità stessa di continuare a fare storia in modo rigoroso. Mi spiego. Se noi trasformiamo gli archivisti in fotografi, con tutto il rispetto per questa bella professione, creiamo nel lettore l’illusione che basta collegarsi con un sito e sfogliare le immagini per giungere alla “verità”. Ma commetteremmo un gravissimo errore. Fare storia è spesso un percorso tortuoso in cui gli archivisti sono i nostri fari: solo loro infatti sanno quanto certe serie che, a giudicare dal titolo con cui sono state etichettate, parrebbero proprio adatte a coprire il tema che vogliamo studiare siano in realtà deludenti, mentre viceversa altre, che uno non sospetterebbe mai, contengono proprio le informazioni giuste. Se io ad esempio cerco notizie sulla produzione della seta in Calabria, saranno gli archivisti a orientarmi suggerendomi di guardare nei Penes acta o in altre serie che a me non verrebbero mai in mente. Ma se io sono lasciato solo a me stesso, e mi metto a frugare in un archivio digitale, magari inserendo le parole chiave “seta Calabria” o scorrendo le signature e le titolazioni, rischio di non trovare nulla o di trovare ben poco. Fare storia e conservare la memoria fanno parte di un unico ciclo: una operazione non può esistere senza l’altra. La rete è uno strumento formidabile, ma non può sostituire le persone. Come Virgilio per Dante, sono gli archivisti che ci guidano alla scoperta e noi non possiamo, non dobbiamo rischiare di farne a meno.

Luciano Allegra

3 Commenti a “LUCIANO ALLEGRA, “il catasto onciario on line””

  • Maria Grazia Zecca:

    Ho scoperto, letto ed apprezzato questo vostro progetto. I Catasti onciari sono uno spaccato di vita del periodo borbonico del ’700. Io sono una grande curiosona e, nella mia Lecce, vado spesso a leggere questo preziosi libroni. Nel consultarli mi sono trovata catapultata nella mia città in quell’epoca. Ho trovato vari miei antenati. Ho scoperto dove abitavano, la loro struttura familiare, il loro lavoro ed eventuali beni. Ho visto Lecce divisa in tante isole ed ho incominciato ad impararle e ad individuarle nell’attuale toponomastica. Il mio desiderio, ora, è che il vostro progetto sia da esempio per l’archivio di lecce. Grati per quest’avventura vi saluto
    Maria Grazia Zecca

  • NIKO:

    Leggendo con interesse questo splendido e interessante lavoro di messa in rete attraverso la pubblicazione del Catasto onciario di notizie, informazioni, atti, curiosità e spaccati di vita quotidiana settecentesca di una città del sud Italia, non posso che complimentarmi con gli autori. Spero che questa encomiabile iniziativa venga “copiata” da altri Archivi di Stato, in modo particolare da quello di Napoli nel quale è conservato, tra gli altri, il CATASTO ONCIARIO di Picerno, il paese delle mie origini in provincia di Potenza.
    Grazie e ad maiora, semper
    Niko Marc

  • Giulio Cesare Salemme:

    Grazie per quanto state facendo, un grande progetto che non ha bisogno di commenti. Ho avuto la possibilità di consultare molti catasti onciari ed ogni volta ne ho tratto una gran messe di informazioni. Mi dedico alle ricerche della mia famiglia dal 1956 ed ho visitato molti archivi in Italia, il vostro è veramente all’avanguardia e spero che analogo progetto venga intrapreso anche negli altri archivi di stato.

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